LOCKDOWN, PANDEMIA E CULTURA

Ogni mattina parcheggio la macchina alla Multisala Portanova di Crema, il Cinema della città nella quale lavoro. Lo faccio praticamente da più di due anni. Arrivo, scendo e lancio un’occhiata alle locandine che campeggiano sopra all’ingresso della biglietteria, ogni mattina. Anche da un anno a questa parte.

In questi ultimi mesi le locandine non sono mai cambiate. Sono ferme a quest’estate, a quel mese striminzito nel quale le sale hanno potuto riaprire per poi essere richiuse, fermando nuovamente la luce danzante sullo schermo.

I Cinema non fanno il rumore dei negozi, dei bar e dei ristoranti. E i Teatri pure, forse ancora meno. Già in tempi normali la Cultura non è che abbia una grande voce in capitolo nella nostra vita, figuriamoci in periodo di pandemia, dove le priorità sono altre.

Certo, si è spostata sulla rete, cercando di tenere il passo, com’è giusto che sia e come deve essere. Ma, nonostante tutto, fruire la Cultura esclusivamente in digitale ha tutto un altro sapore, un’altra attrattiva. La Cultura va vissuta, in presenza, di persona. E in questo periodo soffre, soffre come tutte le altre categorie e forse un po’ di più, Cenerentola quasi dimenticata.

Sento già qualcuno che mugugna: “si va beh, vuoi mettere a confronto un’attività con un cinema o un teatro?!”. Perché no? Anche lì ci sono persone che lavorano. Che hanno una famiglia, un mutuo da pagare probabilmente, le bollette. Le tasse. Perché nella maggior parte dei casi chi lavora nella Cultura è un libero professionista con partita IVA che, al pari degli altri, le paga.

In questo momento storico non bisogna fare l’errore di pensare di essere gli unici in difficoltà. Viene naturale, certamente, la richiesta di aiuto sale dal profondo, come è giusto che sia. Ma -nella difficoltà- non si è soli.

Una cosa, in questo caso, è certa: al termine di questa situazione avremo un buco culturale pazzesco. Un anno di stop forzato per tutte le attività culturali avrà delle ripercussioni non indifferenti sul nostro modo di pensare alla Cultura dal vivo, senza contare quello che non si è potuto realizzare in questo periodo impiegherà diverso tempo per rimettersi al passo. Stagioni teatrali, cinematografiche, concerti, mostre. Tutte cose che sembrano non avere importanza agli occhi dei più.

Ma la Cultura è quella cosa che rende accettabile i momenti bui e difficili. Non ci fossero le piattaforme per lo streaming, con la loro disponibilità di film, ai quali partecipano centinaia di persone con il proprio lavoro, cosa avremmo fatto in questo anno di reclusione forzata? Non ci fossero i libri, le visite online, i tour virtuali ai musei, gli spettacoli teatrali a distanza, come avremmo passato il tempo?

Probabilmente saremmo stati davanti alla TV che ci avrebbe riempiti solo di notizie funeste, senza possibilità di avere altro svago.

Ma ora anche questo settore ha bisogno di ripartire. E se non può farlo, perché mi rendo conto che la situazione è tutt’altro che risolta (e non vorrei essere al posto di chi ha preso e deve prendere certe decisioni, perché da casa siamo capaci tutti a dire “Bisogna fare così, bisogna fare cosà”. Ma da casa però), allora deve essere aiutato come gli altri. Perché dietro al settore dello “svago”, come identifichiamo il settore della Cultura, ci sono delle persone.

Pensiamoci. Pensiamo a cosa abbiamo fatto durante il lockdown, durante queste serate passate in casa. Forse, senza che ce ne accorgessimo, la Cultura ci ha già in parte salvati in questo periodo, e lo ha fatto quasi in silenzio. Sicuramente avendo meno attenzione da parte di tutti, istituzioni e media.

Perché la Cultura non urla, non sbraita. La Cultura rende sopportabili i momenti difficili. E forse è arrivato il momento che qualcuno gliene renda merito.

Stanlio e Ollio

Chi non ha mai visto un loro film? Chi non ha riso almeno una volte alle loro gag incredibilmente surreali e fantasiose? Un film per riscoprire il mito di Stan Laurel & Oliver Hardy e che anche le nuove generazioni dovrebbero guardare.

La trama, in breve

Siamo negli anni Cinquanta, all’inizio del tour teatrale di Stanlio (Steve Coogan) e Ollio (John C. Reilly) in Inghilterra. Sono passati diversi anni da quando la coppia comica del cinema era al massimo dello splendore, ed ora il periodo buio è arrivato anche per loro. Se la gente continua ad andare al cinema a vedere i loro film, la presenza incombente della televisione fa si che il pubblico non li segua a teatro, dove i due continuano ad esibirsi anche davanti ad un pubblico sparuto.

La mancanza di pubblico, vecchi rancori mai sopiti e la malattia di Oliver però rischia di minare un’amicizia trentennale tra le più proficue della storia del cinema.

Il mio parere personale

Come avrete notato non amo molto scrivere la trama dei film che guardo, proprio perché, oltre ad essere ormai reperibile ovunque, può esserci il rischio che qualcuno leggendola non ci trovi nulla di particolare da suscitare emozioni come me ne ha regalate questo film. Infatti se la trama può risultare lineare e forse anche un po’ didascalica (tratta dal libro Laurel & Hardy – The British Tours di ‘A.J.’ Marriot), in un’ora e mezza viene raccontata quella che è stata una delle amicizie più incredibili della storia della Settima Arte, facendo rivivere sullo schermo due icone come era già successo con il Chaplin di Richard Atteborough (se non l’avete visto recuperatelo assolutamente!).

E, proprio come per il film con Robert Downey Jr., anche in questo si raggiungono livelli di poesia veramente eccezionali, nei quali si vedono due persone delle quali, come dice qualcuno, hanno buttato via lo stampino. Perché è questo che risalta da questo film: le persone. Stanlio e Ollio fuori dal set, quando erano semplicemente Stan e Oliver e le bombette dei loro personaggi erano riposte sull’appendiabiti. Un film sul Cinema e sul periodo successivo a quello d’oro dello splastick (per chi non conoscesse il termine, slapstick comedy indica quelle commedie nate nel periodo del muto e che si basavano sul linguaggio del corpo), dove alcuni attori avevano iniziato la loro parabola discente. Stan & Ollie, o dovrei dire Stan & Babe, come voleva essere chiamato Oliver Hardy -e riguardo al nomignolo e alle sue origini vi rimando al libro Mr. Laurel & Mr. Hardy di John McCabe la cui edizione italiana è curata dall’associazione Noi siamo le colonne– che nonostante abbiano avuto anche momenti di divergenza alla fine si sono sempre ritrovati senza mai perdersi davvero.

Credo che la sostanza di questo film sia un puro e semplice atto d’amore nei confronti di due uomini che hanno sempre avuto la capacità di vedere il mondo con gli occhi dei bambini e restituendocela, rimanendo nell’animo dei bambini loro stessi. Non importa quanto il mondo sia cinico e cattivo con loro, Ollio e Stanlio riusciranno sempre a vincere e noi faremo sempre il tifo per loro, in ogni situazione. Perché, in fondo, tutti noi siamo sia Stanlio che Ollio e perché

Il mondo è pieno di persone come Stanlio e Ollio. Basta guardarsi attorno: c’è sempre uno stupido al quale non accade mai niente, e un furbo che in realtà è il più stupido di tutti. Solo che non lo sa

Oliver Hardy

P.S. veramente lodevole l’iniziativa di RaiMovie di trasmettere tutti i film e le comiche della coppia, ogni sera alle 20. Un’operazione che poteva sembrare improbabile quanto impossibile e invece dimostra che esistono ancora persone coraggiose capaci di osare.

Sbirranza

Sbirranza è una sketch comedy composta da dodici episodi da tre/quattro minuti ciascuno, nella quale si raccontano le avventure di Nick (Pippo Crotti) e Tom (Marco Rossetti), due detective privati confinati all’interno della loro auto. Intorno (e dentro) a questa succede veramente di tutto, dal tentativo di scambiarsi il posto senza scendere dalla macchina, alle incursioni della fidanzata di Tom, fino a salti nel passato. E se Nick è un tipo social, sempre piuttosto allegro e -alle volte- fulminato, Tom invece è un ragazzo serioso e imbronciato con alcuni guizzi di follia.

Nick (Pippo Crotti) e Tom (Marco Rossetti)

Ve ne parlo, in un modo un po’ diverso rispetto al solito formato che uso per “recensire” i film, perché Sbirranza è una sketch comedy alla quale tengo particolarmente. Prodotta da Taodue (la stessa casa di produzione di Checco Zalone per intenderci, ma non solo) e trasmessa su Mediaset Italia2 nel mese di dicembre, nasce da un soggetto di Pippo Crotti e alla stesura della sceneggiatura ho contribuito anche io.

Non ne faccio un articolo per tirarmela, ma perché è un piccolo passo verso quel sogno che inseguo da sempre e che si chiama Cinema. Non è un punto di arrivo ma sicuramente un punto di partenza, e anche se questa può sembrare una frase fatta vi assicuro che non è così. Non mi accontento, anche se sono felice di questo inizio.

La miniserie richiama e prende un po’ in giro i polizieschi americani, con tutto ciò che li caratterizza (pistole&parolacce in primis), ed ho avuto la fortuna di poter essere sul set insieme agli attori e alla troupe mentre quello che avevamo scritto diventava realtà sotto gli occhi di tutti.

E’ stata la mia prima volta, ed è stata una magia. Ovviamente parliamo di un set che non ha nulla a che fare con quelli dei kolossal americani o comunque di un film ad alto budget, ma ogni presenza è stata fondamentale e professionale per la buona riuscita degli episodi, girati a tempo record. Il tutto si è svolto, infatti, nell’arco di tre giorni nel mese di luglio, in un clima allegro e bello, ed ho avuto modo di fare anche la comparsa in un paio di episodi, dove non sono mancate delle guest star d’eccezione, come ad esempio Gianluca Scintilla Fubelli, Angelo Pisani, Laura Locatelli e Virginia Perroni.

Un sogno, il Sogno, che si avvera piano piano. La strada è lunga, lunghissima, ma non dispero di riuscire a fare il lavoro che ho sempre sognato fin da bambino.

Sbirranza è ora sul sito di MediasetPlay, a questo link. Guardatela, se vi va e se avete tempo, e poi fatemi sapere cosa ne pensate!

Dickens – L’uomo che inventò il Natale

Natale si avvicina e cosa c’è di meglio di un film a tema, soprattutto se dedicato a quello che è il classico della letteratura natalizia inglese?

La trama, in breve

Dopo il tour Trionfale che l’ha portato in America, Charles Dickens (Dan Stevens) torna a Londra dove ad attenderlo trova i debiti e una delle più grandi paure degli scrittori: il blocco creativo. La sua numerosa famiglia è in attesa di un nuovo elemento e lo scrittore di Oliver Twist è a caccia di denaro ma, soprattutto, di una nuova storia da raccontare, nonostante la delusione derivante dai flop dei suoi ultimi lavori. Grazie ai racconti della nuova domestica irlandese, Dickens trova quello che sta cercando: un racconto ambientato il giorno della vigilia di Natale. Convinto della bontà della propria idea, lo scrittore decide di raccogliere “in proprio” i soldi necessari alla pubblicazione e all’illustrazione del libro e, in sei settimane, riesce a scrivere quello che diverrà universalmente noto come Il canto di Natale.

Fonte: Wikipedia

Il mio parere personale

Un film che non è la solita riedizione del classico di Dickens ma un racconto sulle settimane di gestazione del libro, sulle difficoltà di uno scrittore in crisi di ispirazione che ha diversi conti in sospeso con il suo passato, al quale attinge a piene mani per popolare il suo racconto. 

Dickens – L’uomo che inventò il Natale, diretto da Bharat Nalluri, si propone di fare quello che finora, al Cinema, non si era ancora visto, ovvero raccontare l’essenza di un capolavoro letterario mostrando l’impegno, la fatica e gli ostacoli che uno scrittore, seppur famoso come Charles Dickens, ha dovuto affrontare per portare fino in fondo la sua creatura nell’Inghilterra del 1843. E lo fa con successo.

Accompagnato costantemente dai suoi personaggi (Ebeneezer Scrooge in prima linea, ma anche il signor Fezziwig con la moglie, il piccolo Tim Cratchit), lo scrittore vaga per una Londra novembrina traendo ispirazione da quello che lo circonda, con uno sguardo rivolto soprattutto alla povertà delle classi sociali più deboli dalle quali lui stesso proveniva: rimasto solo dopo l’arresto del padre e della madre, viene costretto a lavorare in una fabbrica di lucido per scarpe, esperienza che lo segnerà profondamente per tutta la vita. E spesso i genitori fanno capolino nella storia, mettendolo duramente a confronto con quel passato mai sepolto del tutto. 

Il film può anche essere visto come uno sguardo rubato sul lavoro dello scrittore. Esemplare è la frase pronunciata da Dickens quando, ormai preda dell’ispirazione, deve portare a compimento il finale del libro:

I personaggi non fanno ciò che voglio! Sono io l’autore!

Charles Dickens

I personaggi, infatti, sono spesso vicino a lui, dialogano e hanno vita propria e autonoma dal volere dell’autore. Su tutti spicca il personaggio di Ebeneezer Scrooge, interpretato da Cristopher Plummer, arcigno e spietato rappresentante di quella classe benestante che per secoli ha vissuto sulle disgrazie dei meno fortunati, che si pone totalmente agli antipodi rispetto a John Dickens, padre di Charles e interpretato da Jonathan Pryce, al quale il figlio non perdona l’aver rovinato la sua infanzia.

Fonte: Movieplayer

Ben girato e ben interpretato, qua e là mi è sembrato soffrisse un po’, soprattutto dal punto di vista della sceneggiatura, nel continuo alternarsi tra passato e presente dell’autore inglese, nonostante la necessità di mostrare l’infanzia del giovane Charles sia dovuta ad una miglior comprensione di come Il canto di Natale attinga a piene mani dalla storia umana del suo creatore.

Forse non diventerà un classico natalizio come molti altri film sul tema, ma rimane certo un’opera interessante per tutti gli amanti di Charles Dickens e, nemmeno a dirlo, del Natale.

E voi, siete amanti del Natale?

Ladyhawke

Dopo un Ferragosto in cui mi sono dedicato a guardare qualche film, eccomi a raccontarvi di questa pellicola del 1985 (annata straordinaria per tutti quelli della mia età!).

La trama, in breve

Francia, XIII secolo. Philippe Gaston (Matthew Broderick), soprannominato “il topo”, riesce ad evadere dalle prigioni del castello del Vescovo di Aguillon (John Wood) ma non passa molto tempo che i cavalieri del signore lo ritrovano per riportarlo in città ed impiccarlo. In suo aiuto interviene Etienne Navarre (Rutger Hauer), un cavaliere che viaggia in sella ad uno stallone nero e che ha un falco come compagno di viaggio. Durante la fuga dai cavalieri, Navarre carica il ragazzo sul cavallo e fuggono: lo stesso Navarre, ex capitano del corpo di guardia della città di Aguillon, è ricercato dal Vescovo. Insieme, i due si rifugiano nei boschi circostanti, sempre con il falco al seguito. Di notte, Navarre sparisce e compare una bellissima ragazza: Isabeau d’Anjou (Michelle Pfeiffer). Col passare dei giorni Philippe scopre che Navarre e Isabeau sono innamorati e che una terribile maledizione lanciata dal Vescovo di Aguillon li tiene separati: lui di notte si trasforma in un lupo mentre lei di giorno in un falco.

Sempre insieme, eternamente divisi. Finché il sole sorgerà e tramonterà. Finché ci saranno il giorno e la notte.

-Philippe Gaston-

Il mio parere personale

Uno dei miei “film della vita”.

Anzitutto è dell’85, quindi abbiamo la stessa età. Inoltre è una di quelle storie che potrebbero davvero derivare dalle novelle medievali (o di poco successive) che, tramandandosi nel tempo, diventano leggende. L’amore cercato e contrastato in una maniera che pare senza soluzione, è forse uno dei punti di forza di questo film, unito al personaggio di Navarre che, personalmente, ho sempre adorato. Credo sia uno dei personaggi più buoni e nobili che siano stati scritti per il Cinema: integerrimo, follemente innamorato e capace di perdonare (vedi con il frate Imperius, colpevole di averlo tradito).

Rutger Hauer è Etienne Navarre

Rutger Hauer è Etienne Navarre

Bellissima come non mai l’Isabeau d’Anjou interpretata da Michelle Pfeiffer, eterea e dagli occhi grandi, dolce e delicata nei gesti e nelle parole, che si affida alle cure di Philippe, il quale fa da portavoce tra i due innamorati, arricchendo qua e là di dettagli i momenti passati con l’uno o l’altra. La rappresentazione che ne da il film ricorda molto il modello della Donna Angelicata cara agli Stilnovisti di Dante e mi piace pensare che la cosa sia voluta, essendo il film ambientato nello stesso periodo storico.

Michelle Pfeiffer è Isabeau d'Anjou

Michelle Pfeiffer è Isabeau d’Anjou

Non ultimo, il personaggio di Philippe Gaston detto “il topo” per la sua abilità a svignarsela dalle situazioni più difficili, carcere compreso. Sarebbe dovuto essere il ruolo consacratorio per Matthew Broderick, reduce dal successo di Wargames, ma nonostante l’ottimo successo del film e due candidature agli Oscar (per il Miglior sonoro e Miglior montaggio sonoro) la sua carriera stenterà a decollare. Dal punto di vista  della sceneggiatura, però, ci si accorge che il protagonista di questo film in realtà è proprio Philippe, in quanto il personaggio cambia con l’evolversi della storia: da bugiardo egoista che pensa solo a scappare e a mettersi in salvo a messaggero sincero d’amore che partecipa al tormento dei due amanti, rischiando la propria vita per aiutarli.

Matthew Broderick è Philippe Gaston

Matthew Broderick è Philippe Gaston

Nonostante risenta un po’ della recitazione (e della regia) tipica degli anni Ottanta, il film di Richard Donner (la quadrilogia di Arma Letale, I Goonies, Superman, per citarne alcuni della sua filmografia) rimane uno dei migliori del regista e uno dei più emozionanti sfornati da quel decennio, complice anche l’ambientazione totalmente italiana della storia. Infatti, nella versione originale, la storia è ambientata in Italia, nei dintorni de L’Aquila (che è diventata per l’occasione Aguillon), ma in fase di doppiaggio si decise di dargli un’ambientazione francese, il che non influisce sulla bellezza del film.

I borghi medievali e i castelli che fanno da sfondo al film sono: Castell’Arquato (in provincia di Piacenza), Torrechiara (Parma), Vernasca (frazione di Vigoleno, Piacenza), Rocca Calascio e Castel Del Monte (in provincia de L’Aquila), mentre la chiesa nella quale si svolge il finale è quella di San Pietro a Tuscania, ricostruita però a Cinecittà.

Per concludere, un borgo non lontano da me: Soncino, in provincia di Cremona. Il castello sforzesco, utilizzato diverse volte per il cinema e la televisione, in questo caso è l’ingresso della città di Aguillon.

Soncino

Il castello di Soncino – Fonte: TripAdvisor

LadyHawke è un film che è invecchiato bene, mantenendo il suo fascino e la sua carica emotiva, godibile e romantico ma non sdolcinato, con una magnifica scena finale.

Se non l’avete ancora visto fatelo, ve lo consiglio col cuore! E poi, ditemi cosa ne pensate…

 

Chiamami col tuo nome

Credo non ci sia bisogno di approfondire molto la trama del penultimo film di Luca Guadagnino, visto il successo riscosso sia in Italia che all’Estero, ma farò comunque un veloce riassunto per i più distratti.

La trama, in breve

Siamo “da qualche parte, nel nord Italia“, nel pieno dell’estate del 1983. Elio Perlman (Timothée Chalamet) è un musicista diciassettenne in vacanza con la famiglia in una villa padronale immersa nelle campagne della Pianura Padana e trascorre le sue giornate trascrivendo musica classica, leggendo e flirtando con l’amica Marzia (Esther Garrel). La calma dell’estate viene interrotta con l’arrivo di Oliver (Armie Hammer), studente ventiquattrenne impegnato nella stesura della tesi post dottorato, che i Perlman ospitano come fanno ogni anno con altri allievi. L’incontro tra i due ragazzi sarà l’inizio di un’esperienza che stravolgerà la vita di entrambi, ma soprattutto quella di Elio, portandolo alla scoperta dell’amore attraverso lunghe passeggiate, nuotate e discussioni che sfoceranno in momenti di passione e desiderio travolgente.

ChiamamiColTuoNome

Fonte: Rollingstones.com

Il mio parere personale

Ve lo dico fin da subito: questa non sarà una recensione nel senso stretto del termine, perché su questo film non so e non posso essere obiettivo, soprattutto perché è stato girato a casa mia. Crema, Pandino, Moscazzano sono paesi che frequento da fin quando ero un ragazzino. Infatti sono nato e cresciuto in questi paesi di campagna a quaranta chilometri da qualsiasi grande città che li circonda. Qui l’estate è tutt’ora come la si vede nel film: lenta, con i campanili delle chiese che suonano i rintocchi di tutte le ore (e a volte anche le mezze!),

dove il sole picchia come un martello sulla testa della gente

-Voce narrante di Don Camillo (1952)-

dove ci sono i campi, i fossi e l’acqua sorgiva dei fontanili, gli stessi dove Elio e Oliver vanno a fare il bagno “nel fiume”. E quando dico gli stessi intendo dire che sono proprio quelli dove andavo anche io, in bicicletta o in motorino, a fare il bagno nelle estati cocenti e umide. La stagione calda è afosa, nei bar ci sono gli anziani che giocano a carte, urlando per un carico di briscola sbagliato e le donne fanno i tortelli cremaschi (qualcuna li fa ancora in casa, secondo una ricetta che cambia da paese a paese).

I film girati nel territorio cremasco li si contano davvero sulla punta delle dita di una mano: Gli sbandati (1955) di Citto Maselli, Oh, Serafina! (1976) di Alberto Lattuada, Occhio alla perestrojka (1990) di Castellano&Pipolo, Il primo giorno d’inverno (2008) di Mirko Locatelli e, appunto, Chiamami col tuo nome (2017) di Luca Guadagnino.

Quindi potete capire che non vivo in un territorio abituato ad essere il set di un film, soprattutto quando questo riscuote successo in tutto il mondo e viene premiato persino con un Oscar (a James Ivory, per la Miglior Sceneggiatura non originale). In questi giorni ci sono i turisti stranieri che girano per le strade di Crema con la loro macchina fotografica al collo, vanno a Moscazzano a vedere Villa Albergoni -chiusa al pubblico in quanto proprietà privata- oppure a Pandino a fare colazione al bar Il Cantuccio, solo perché lo si è visto in una delle scene del film.

 

Da appassionato e amante di Cinema, tutta questa attenzione non può che farmi molto piacere, perché il Cremasco è terra nella quale il Cinema non viene considerato come una possibilità di lavoro ma solo come uno svago, un passatempo di un paio d’ore ogni tanto. Ora sembra che le coscienze si siano risvegliate e vedano questa strana Settima Arte come un’opportunità.

Guadagnino, dal canto suo, ha girato proprio a Crema -dove risiede- per ottimizzare i costi e i tempi di lavorazione: 34 giorni di riprese effettuate in ordine cronologico in una delle estati più piovose che si ricordino negli ultimi anni. Ma la scelta di spostare l’ambientazione da Bordighera a Crema forse non è casuale:

Crema è un posto dove l’estate, in particolar modo, sembra che non passi mai. Mi piace tutta l’acqua che c’è in giro per la campagna, i canali, queste pozze d’acqua.

-Luca Guadagnino-

E, a proposito del successo inaspettato del film:

E’ un film che è stato proprio abbracciato in una maniera molto vigorosa dal Cinema americano. Penso che per loro abbia funzionato come racconto di emapatia, di compassione, specialmente dopo l’elezione di Donald Trump, che è diventata un realismo della rabbia, e questo film invece ne è così privo.

-Luca Guadagnino-

Cosa potrei aggiungere di più, a quanto già detto? Forse solo una cosa: per chi sogna di fare questo mestiere, il mestiere del Cinema, esserne sfiorati in questo modo è una specie di Magia. Perché quello che tu vorresti fare, il tuo Sogno, ti è passato accanto e ti ha appoggiato una mano sulla spalla per poi proseguire lungo la sua strada e, anche se non l’hai visto chiaramente, sai che quella carezza era la sua.

Voi, che sarete di certo più imparziali di me, avete visto Chiamami col tuo nome? Cosa ne pensate?